Ho intervistato un famoso rapper italiano

 


Intervista originariamente scritta per la rivista “RAPnRolla”, è stata gentilmente declinata per divergenze creative e lavorative. 


Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.


Milano, Domenica 20 gennaio, ore 8:30 del mattino.

Dopo un’abbondante colazione a base di plumcake e tazzone di latte caldo mi lavo i denti e prendo su penna e taccuino pronto a dirigermi verso il luogo dell’intervista. Chi sto andando a intervistare? Bé, molto semplice. Anzi no, non lo è affatto. Perché se si pensa a tutto ciò che ha fatto per la musica, nello specifico il rap, dai primi anni 2000 nelle borgate romane fino ai giorni nostri nei ridenti quartieri milanesi, un giorno non sarebbe sufficiente a intervistare questo mostro sacro della scena rap italiana. Di chi sto parlando forse lo avrete già capito:                          , anche conosciuto come N        N        ; Er N      ; Doppia N; o come lo chiamerò d'ora in avanti, NN (Non Nominabile).

Autore di album dallo spessore di M         , E          e il più recente V    , può vantare collaborazioni con i nostrani Gue Pequeno, Salmo, Marracash e gli internazionali Wu Tang Clan, facendolo entrare di diritto nel Monte Olimpo della musica italiana.

Proprio per questo ho il nervosismo a fior di pelle. Esco di casa e una folata di vento gelido mi investe, prendendosi la mia sciarpa e portandosela chissà dove. Pazienza. Salgo in sella alla mia bici e tenendo stretto con una mano la borsa a tracolla, con l’altra afferro il manubrio e incomincio a pedalare vigorosamente fra le vie di Milano. Penso alle domande da fargli e a quali temi trattare: attualità? Politica? Cinema? O forse proprio la musica? NN si è rivelato nella sua carriera un artista caratterizzato da temi “pesanti” come la droga e la vita di periferia, senza mai nascondere il suo amore per il cinema horror italiano degli anni ‘70 e ‘80 e le sue opinioni sulla gestione comunale di Roma dei quartieri difficili in cui è cresciuto. Alla fine decido di improvvisare sul momento e vedere dove ci porterà la conversazione.

Alle 9:45 arrivo finalmente davanti a casa sua e parcheggio la bici in una viuzza lì vicino, appoggiandola un po’ in disparte a un palo. Tiro fuori dalla borsa a tracolla il deodorante e me ne spruzzo un po’ addosso: la pedalata è stata lunga e i numerosi strati di abbigliamento che ho addosso di certo non hanno aiutato. Mi fumo una sigaretta aspettando le 10, ore concordate per l’intervista. La via è tranquilla e le poche persone che passano a quell’ora sono tutte benestanti uomini d’affari con le tasche profonde e i portafogli pesanti. Cosa direbbe l'NN di vent’anni fa se vedesse dove abita ora il suo sé del presente, o meglio, del futuro? Mi annoto mentalmente di fargli la domanda e, buttato il mozzicone nella griglia di un tombino, suono il citofono.

<<Chi é?>> mi chiede una voce roca, impastata un po’ dal sonno.

<<RAPnRolla, abbiamo un’intervista fissata per le dieci.>>

Un acuto ronzio elettrico mi da il permesso di aprire il portone. Nell’ampio atrio pulito e ordinato c’è solo il portiere seduto dietro a un bancone lucido. Cammino verso di lui e per qualche secondo il silenzio è interrotto dallo stridore delle mie suole contro il pavimento marmorizzato.

<<Scusi, sa a quale piano abita NN?>>

<<Chi, scusi?>> mi chiede confuso.

<<E             F         , mi scusi>> rispondo, rosso dalla testa ai piedi per la gaffe appena fatta.

Il portiere si allontana un attimo e prende su la cornetta di un telefono fisso, tenendolo fra spalla e orecchio mentre digita il numero. Mi guarda. Dopo una conversazione di qualche secondo annuisce e mette giù.

<<Il sig. F          è al piano…>>

Lo ringrazio e mi lancio su per la rampa di scale, saltando i gradini due a due una volta fuori dal raggio visivo del portiere.

Arrivo davanti alla sua porta. Scosso dall’emozione e con lo stomaco a soqquadro, premo tremante il campanello.

Da dentro si sentono arrancare dei passi che si fanno sempre più vicini finché non si fermano a pochi centimetri da me. Il suono di numerosi ingranaggi metallici provenire dall’interno della porta già mi danno un’idea della persona prudente che è, tratto caratteriale che si riflette anche nella sua musica costellando la sua carriera sì di progetti distinti e interessanti, ma sempre coerenti al suo stile e al suo vissuto.

NN mi si para davanti in tutto il suo splendore. È sveglio da poco e si vede soprattutto dal grosso sbadiglio che mi spara in faccia. L’alito sa di caffè. Sorrido e gli dico: <<Buongiorno.>>

Si scansa e mi fa cenno di entrare.

Siamo in un corridoio scuro e non riesco a distinguere molto di ciò che mi circonda. C’è una tavoletta di legno in cui è intagliata la frase “Home sweet Home” appesa vicino alla porta da cui ganci pendono numerosi mazzi di chiavi, poco più a destra un piccolo calendario della raccolta differenziata del comune di Milano, uno di quelli che ti segna quali sacchi mettere fuori e in quali giorni. NN mi supera e mi fa strada. Riesco a dare una sbirciatina veloce alla cucina, luminosa e arredata in stile moderno. Tanto luminosa che quasi mi acceco abituato com’ero al buio del corridoio. Cerco di dare un’occhiata alla zona notte ma sfortunatamente la porta è chiusa. Forse se dopo glielo chiedo mi ci farà entrare. Dopo qualche passo sbuchiamo in ciò che sembrerebbe il salotto, o per meglio dire il salone. Tutto è lucido, pulito e ordinato. Al centro domina un divano a L in stoffa grigia che ha tutta l’aria di essere la cosa più comoda a cui le mie chiappe possano mai aspirare di poggiarsi. Di fronte al divano un televisore grande e minaccioso come il monolite di 2001: Odissea nello spazio occupa metà parete. La stanza è ben illuminata da un’ampia vetrata le cui porte-finestre danno accesso a un terrazzo il cui pavimento è disseminato qua e là di foglie secche. Sulle restanti pareti del salotto invece sono incorniciate e appese locandine di cult cinematografici come Pulp Fiction, Taxi Driver, Suspiria Zombi 2 (uno dei suoi preferiti).

<<Per chi hai detto che è l’intervista?>> mi chiede con il suo forte accento romano.

<<RAPnRolla. Rivista digitale.>>

<<Mai sentita. Davero il nome è quello?>>

<<Sì>>

<<’Mazza… ma esiste davvero o è solo una scusa per entrare in casa e vennerme n’aspirapolvere?

<<No no, macché, c’è il sito e tutto eh.>>

Incomincio ad agitarmi e la sensazione di non avere credibilità ai suoi occhi mi dà una fitta allo stomaco.

<<Ma sì, sto a scherzà, nun te preoccupà>> risponde ridendo e subito mi sento più rilassato, nonostante la fitta ci metta un po’ ad andarsene.

<<Ah ok, daje>> rispondo, per entrare un po’ nel mood romanaccio. Lui subito smette di ridere e mi tira un’occhiataccia con la coda dell’occhio. Pensa forse che lo sto prendendo in giro? Già mi pento di averlo detto. Devo rimediare. Ci sediamo sul divano, io sull’isoletta (la parte inferiore della L, per intenderci) e lui all’altra estremità, nel posto con il poggiabraccio. Il divano è comodo come immaginavo. Mi sfilo giaccone e borsa a tracolla e me li appoggio entrambi di fianco. Come mi piego un’altra fitta mi attraversa lo stomaco, questa volta un po’ più forte di quelle prima. Incomincio a pensare che non sia il nervosismo; stringo i denti e cerco di resistere. Apro la borsa e prendo il taccuino. Cerco la penna e dopo qualche secondo a ravanare tra quadernetti e post-it percepisco una strana sensazione vischiosa alla punta delle dita. A quel punto trovo la penna. Senza tappo. Ricoperta di inchiostro nero fuori e dentro. Proprio quell’inchiostro che mi ha imbrattato le dita. Mi asciugo queste ultime su un foglio a caso e ripongo il taccuino di nuovo nella borsa abbandonando l’idea di segnarmi le risposte.

Gli indico con la mano pulita il poster di Zombi 2 appeso alla parete e tengo chiusa in un pugno l’altra nascondendola fra le gambe.

<<Che roba Lucio Fulci, eh?>>

<<Un grande. Ha fatto capolavori dell’horror co’ meno soldi de quelli americani, gente che in quel genere ha sempre dominato, tanto pe’ dire Romero, Friedkin, Carpenter e tanti altri. >>

<<Per non parlare di Mario Bava.>>

<<A quello è n’artro che ha cacciato fuori certi capolavori. A uno che ha fatto I tre volti della paura che je vuoi dì? Te inginocchi e muto, quello puoi fa’.>>

<<Il rapporto fra la tua musica e l’immaginario horror è sempre stato molto stretto, basti pensare alle basi di molte tracce in cui vengono campionati spezzoni di dialoghi presi da film o citazioni visive presenti in videoclip di certe vecchie canzoni. Detto ciò, definiresti l’horror un’influenza fondamentale del tuo percorso artistico?>>

<<Avoja, considera che fin da regazzini io e gli altri, quelli che poi diventeranno i        , passavamo i pomeriggi a guardarci sti film in cassetta e ci imparavamo…>>

Il mio stomaco si contrae in mille crampi simili a coltellate. Cerco di non darlo a vedere e di concentrarmi su ciò che dice NN ma non riesco ad afferrare il senso di nessuna delle sue parole, come se parlasse in un’altra lingua. Tutto ciò a cui riesco a pensare è al mio stomaco e alla necessità di andare al più presto in un bagno e lasciarmi andare sopra un cesso. Non dovevo mangiare i plumcake e non dovevo bere tutto quel latte caldo. Non dovevo mettere quel giaccone ma uno più pesante. Non dovevo andare in bici e prendermi tutta quell’aria fredda addosso. Non dovevo non dovevo non dovevo. Qualche volta riesco a capire una parola o due ma il filo del discorso è bello che andato. Ho la possibilità di intervistare uno dei miei artisti preferiti e nemmeno riesco a sentirlo. Annuisco. Sì, ma a cosa? Annuisco annuisco annuisco. Respiro profondamente. Non passa. Proprio un bel giorno per farmi venire la madre di tutte le diarree. La mia carriera è rovinata, tanto varrebbe che mi abbassassi i pantaloni qui e adesso e mi liberassi sul tappeto. Mi accorgo di fissare un punto vuoto e torno a guardare lui. Sorrido a qualsiasi cosa abbia detta. Sembra serio. Forse non c’era da sorridere. Mi sento freddo e incomincio a sudare. Che faccia devo avere in questo momento? Devo essere bianco come un morto. Uno zombie. Zombi 2 di Lucio Fulci. Morte e orrore e carni putrefatte. Che domanda del cazzo che ho fatto. Non ci dovevo nemmeno venire qui me ne sarei dovuto stare a casa e risparmiarmi un altro lavoro fatto col culo. Culo culo culo culo. I muscoli dell’intestino già sono tutti contratti in uno sforzo immane. Lo stomaco mi sta esplodendo e sto sudando litri e litri e ho la mano destra tutta appiccicosa e non riesco a non sfregarmi le dita sul palmo e a sporcarmi pure quello. Silenzio. Nessuno sta più parlando. Perché non parla più? Sta aspettando che io dica qualcosa. Non ho niente da dirgli, nient’altro se non che voglio tornare a casa mia, voglio andarmene.

<<Oh, tutto bene?>>

<<Ah, sì, io… non è che potrei usare un attimo il bagno, scusa?>> gli rispondo contrito. Neanche lo guardo più in faccia, oramai. I secondi che ci mette prima di rispondermi mi sembrano secoli.

<<La prima porta di lì a destra. Sicuro di stare bene?>>

Mi alzo subito e stringendo tutti i muscoli del culo punto dritto al bagno con la stessa disperazione di un maratoneta azzoppato a pochi passi dal traguardo. Entro, mi sbatto la porta alle spalle e con l’ultimo barlume di lucidità faccio scattare la serratura alle mie spalle, nel mentre mi abbasso contemporaneamente pantaloni e mutande e mi fiondo sopra il cesso.

Una, due, tre, quattro scariche rumorosissime esplodono dal mio di dietro echeggiando fra le mattonelle blu marino del bagno sgusciando contemporaneamente sotto la porta per riempire il vuoto lasciato dalla mia assenza in salotto.

Vado avanti per un po’ alternando scariche forti ad altre più deboli. Mi guardo intorno osservando il bagno, uno di quei tipici bagni moderni in cui l’arredamento è tutto spigoli e nessuna curva morbida. Il lavabo è un parallelepipedo in rovere scuro su cui ripiano sono appoggiati:


  • n°1 spazzolino elettrico Oral-B

  • n°1 dentifricio Pasta del Capitano alla menta leggermente spremuto sul fondo

  • n°1 flacone di sapone a me sconosciuto dal nome francese


Una leggera rientranza nel lato frontale del parallelepipedo mi fa intuire che molto probabilmente il resto dei prodotti da bagno si trovino in un cassetto a scorrimento all’interno del suddetto parallelepipedo, a cui non riesco ad arrivare a causa della lontananza lavabo-water.

Al mio fianco si trova il bidet, unico oggetto dagli spigoli arrotondati per favorire il lavaggio delle zone intime senza dilaniarsi l’interno coscia. Anch’esso in rovere scuro, assomiglia a una versione in miniatura del lavabo ma senza il cassetto a scorrimento.

La doccia in vetro satinato, che occupa tutta la parete di fondo, è abbastanza grande da ospitare almeno tre adulti.

I vari asciugamani e accappatoi sono tutti della medesima morbida stoffa bianca simili a quelli degli hotel, piegati a penzolare tutti su una lunga sbarra di metallo opaco che corre dal lavandino fino alla doccia, sulla parete opposta a dove mi trovo io.

Nel bagno è presente un’alta finestra fra il water e la doccia a cui non è stata aperta del tutto la persiana e così mi ritrovo a esplicare i miei bisogni nella semi-oscurità a eccezione di un raggio di luce che taglia diagonalmente pavimento-lavandino-soffitto.

Finalmente finisco e mi sento libero e anche svuotato. Vado per strappare un pezzo di carta igienica e sorpresa: non c’è carta. Al suo posto solo un cilindro cavo marroncino di cartone, uno di quelli che servono proprio ad avvertirti che “è finita la carta, cambiami!”, avviso che NN sembra aver ignorato quando è andato in bagno questa mattina o prima di andare a letto ieri sera, lasciandomi solo a naufragare in questo mare di – letterale – merda.

Cerco i fazzoletti nelle tasche della felpa ma ovviamente li ho lasciati nella borsa a tracolla in salotto. Come fare? Mi alzo e camminando con i tipici passettini da braghe calate vado verso il lavabo, apro il cassetto ma dentro ci trovo solo altri asciugamani, cotton fioc, varie creme, una boccetta di profumo ma nessun rotolo di carta igienica.

Incomincio a disperarmi. Dovrei chiamarlo e chiedergli se potrebbe portarmi un rotolo di carta igienica? Così saprebbe per certo che sto cagando nel suo bagno, cosa che sicuramente già sa ma finché non glielo dico esplicitamente ci sarebbe ancora quel tacito accordo tra noi due di “so cosa hai fatto e sai che io lo so ma finché nessuno lo dice potrebbe non essere successo” a salvarmi la faccia permettendomi di continuare l’intervista senza imbarazzo. Decido di non dirgli niente.

Torno al mio posto e penso. La tazza del cesso dentro è un casino, sembra sia scoppiata una bomba a inchiostro tipo quelle dei bancomat solo molto più puzzolente. Nemmeno riesco a vedere il fondo del water. Mi siedo e prendo il rotolo di cartoncino dal porta carta igienica, incominciando ad aprirlo seguendo il disegno a spirale.

Non è molto ma è qualcosa. Tolgo il grosso con quello e spingo ciò che rimane del cartoncino in fondo al water.

<<Ao’ ma che stai a fa’ li dentro?>> mi urla dall’altra parte NN picchiando sulla porta e tentando di aprirla.

<<No, niente, ho finito, adesso esco!>>

Passo al bidet e do così tanta forza nell’aprire il rubinetto che il getto, alla massima potenza, si proietta ovunque sulla parete di fronte. Una volta lavatomi per bene afferro un asciugamano e me lo passo in mezzo alle chiappe più volte, lo ripiego dal lato opposto e lo nascondo sotto uno degli altri appesi alla sbarra in metallo.

Ritorno al cesso e tiro lo scarico. Un debole flusso di acqua (davvero deludente considerate la fastosità di bagno e, più in generale, palazzo) scende giù per le pareti interne portandosi via il rotolino srotolato di cartone che adesso è diventato più simile a una pappetta. Dopo qualche secondo il rotolino ritorna in superficie portando con sé il resto degli ospiti. L’acqua scura incomincia a salire e arriva quasi al bordo della tazza, non lasciandomi alcuna possibilità di rimediare senza far traboccare tutto sul pavimento.

Non so più cosa fare e adesso ci si mette pure NN a battere sulla porta.

<<Ma chi cazzo m’avete mannato?>> lo sento dire, probabilmente al telefono. Vado al lavabo, prendo il profumo dal cassetto e lo spruzzo in giro e dentro la tazza del cesso, chiudo la tavoletta e vado verso la porta.

La apro.

NN mi guarda con un’espressione truce e mentre sto ancora aprendo la porta lui la spalanca con una manata e mi sorpassa.

<<Che è sto odore? Ti sei spruzzato il profumo mio?>>

Non rispondo e vado subito verso il divano, raccolgo il giaccone e tirando su la borsa a tracolla noto un’enorme macchia nera sul divano: l’inchiostro della penna. Ci butto al volo un cuscino sopra e corro all’ingresso. Con la coda dell’occhio do una sbirciata nel bagno e vedo NN avvicinarsi al water. Aperta la porta giusto quanto basta a farmi passare sguscio fuori e proprio prima di chiuderla lo sento urlare una bestemmia. Dalla fretta salto così tanti scalini da scivolare e farmi un’intera rampa di scale supino; ignoro il saluto del portiere e mi precipito verso il portone ma questo non si apre nonostante io continui a spingerlo con tutte le mie forze . Il telefono del portiere squilla.

Con gli stessi occhi allucinati di un topo in trappola faccio saettare lo sguardo a destra e a manca finché non trovo una serie di interruttori alla parete. Li premo tutti e dopo aver acceso e spento varie volte le luci all’interno dell’atrio finalmente becco quello giusto; sento il ronzio metallico e spalanco le porte respirando a pieni polmoni l’aria inquinata di Milano.

Torno alla bici e parto verso nessuna direzione specifica, frastornato e con il vento freddo che mi soffia negli occhi lucidi

Commenti

Post popolari in questo blog

Nel mondo dei videogiochi per adulti

Quando c'era Habbo

Un'indagine ad Altadefinizione